Copertina di Perché Non Sono Femminista di Jessa Crispin, SUR

Perché Non Sono Femminista di Jessa Crispin: un’occasione mancata.

Mi sono approcciata a Perché Non Sono Femminista di Jessa Crispin (edito SUR, con la traduzione di Giuliana Lupi) pensando che le mie idee sul femminismo sarebbero state messe in discussione, come è giusto che sia, perché ritengo che un buon libro sull’argomento non debba avere come scopo quello di non raccontarmi nulla di nuovo, ma debba anzi riuscire a farmi mettere in discussione, altrimenti non imparerei mai nulla. Tuttavia, non credevo che leggendo questo pamphlet mi sarei trovata di fronte ad un libro confuso e a tratti contraddittorio.

Il manifesto fa di otto punti i propri cardini principali, con un capitolo conclusivo che guarda al futuro. Peccato che né i capitoli, né tantomeno la conclusione finale siano coesi e portino veramente a qualcosa. Con questo non voglio dire che ogni cosa che affermi la Crispin mi sembri errata o senza senso. Al contrario, come lei ritengo che sia sacrosanto affermare che il femminismo non sia nato per far sentire le persone a proprio agio. Nessun movimento che abbia come obiettivo quello di cambiare la società in cui viviamo potrà essere “delicato” e non scuotere le coscienze.

Proprio per questo l’autrice si scaglia contro quello che definisce “femminismo universale”, ossia il femminismo mainstream (o bianco) che vediamo su internet, abbracciato da brand che chiaramente stanno solo cavalcando l’onda del momento. Un femminismo di facciata non aiuta nessuno, né chi si proclama femminista per seguire una moda, né tantomeno la causa stessa, perché non implica nessun cambiamento a livello personale e non porta a farsi un esame di coscienza per comprendere le implicazioni delle nostre scelte economiche (cosa acquistiamo e da chi lo acquistiamo), sociali (viviamo sempre più isolati gli uni dagli altri in nome di una conquistata “indipendenza”) e politiche (chi votiamo cosa ne pensa di queste tematiche? Come pensa di risolvere i problemi legati al mondo del lavoro? Etc.).

Tutto sacrosanto. Eppure, mi sembra un po’ riduttivo parlare solo di un femminismo che è sì mainstream, ma che riguarda solo una parte del movimento, come se fosse l’unico femminismo a nostra disposizione oggi, senza oltretutto tenere conto del fatto che anche un femminismo “blando”, se così vogliamo definirlo, può portare comunque a una prima infarinatura e spingere le persone ad informarsi di più sull’argomento (discorso che in Italia abbiamo affrontato con la questione Freeda, sulla quale la mia opinione è allineata con quella di CoseBelle). Le accuse che vengono fatte a questo tipo di femminismo sembrano basarsi solo sui commenti che la scrittrice ha letto online, dato che non vengono mai riportate fonti e che l’unica femminista contro cui si scaglia apertamente è Laurie Penny, citata per una sola frase. Tutte le altre femministe che vengono nominate nel pamphlet sono attiviste cosiddette radicali, alcune delle quali messe in discussione dal movimento stesso per certe teorie che portavano avanti, che potremmo definire transfobiche e razziste.

Stupisce che la Crispin, che per pagine e pagine insiste sull’importanza della messa in discussione di tutto, non sia disposta a mettere in discussione autrici che nessuno ha mai detto debbano essere escluse dal movimento, ma che chiaramente se poste nel loro contesto avevano un significato. Perché il punto è il seguente: l’autrice sembra dare per scontato che un femminismo non radicale non sia in grado di inserire le cose nel proprio contesto, non comprenda le contraddizioni insite nel rompere il soffitto di cristallo se il sistema a cui finalmente accediamo è comunque marcio, che il femminismo mainstream odi gli uomini e usi la vendetta come unica arma.

Il femminismo di cui parla lei è forse quello più evidente perché sbandierato molto online, ma non posso credere che l’autrice non sappia che proprio online è pieno di risorse molto più radicali di quanto lei non pensi. La vendetta di cui parla, quella di cui sentiamo parlare come “gogna online”, viene descritta dalla Crispin come un sistema senza controllo (vero) che non tiene conto del contesto, ma questa affermazione va contro chi invece tiene conto del contesto e si informa prima di retwittare o inneggiare al licenziamento di una persona. Non solo, ma nel momento in cui l’autrice sostiene che questa non sia la soluzione, ma che si debba lavorare per cambiare il sistema e la società, annulla il lavoro di chi si impegna quotidianamente in questo senso. E’ chiaro che un movimento come #MeToo non possa sostituirsi alla giustizia (e nessuno ha mai affermato una tale cosa, quindi di nuovo sarebbe stato utile avere qualche fonte nel libro a rinforzare le sue ipotesi), ma la cosa che mi ha stupito di più è che nell’edizione italiana, uscita un anno dopo la pubblicazione negli Stati Uniti, la Crispin non aggiunga molto a quanto non dica già in tutto il manifesto, ossia che si debba puntare a distruggere il sistema economico capitalista in cui ci troviamo per poter ricostruire la società su basi diverse e più solide.

Il cavallo di battaglia del pamphlet è infatti il seguente: il femminismo universale non è radicale, quindi non va bene, il femminismo non è uno stile di vita e la filosofia del “è una sua scelta, quindi il fatto di scegliere rende qualsiasi cosa abbia scelto femminista” è sbagliata. Sono tutte affermazioni che potrebbero anche andare bene, perché va da se’ che il solo definirsi femministi non sia una condizione sufficiente, che essere femministi non sia uno stile di vita e che semplicemente scegliere di mollare il lavoro, ad esempio, per occuparti della famiglia non sia per forza una scelta femminista. Tuttavia, la questione della radicalità (che a mio parare era l’aspetto più interessante e quello che avrebbe potuto scuotere un po’ di più le coscienze) non viene approfondita più di tanto. O meglio, si insiste molto sull’importanza di essere radicali e di prendere il personale come politico veramente sul serio, ma non si offre a chi legge la possibilità di imparare di più sull’argomento. Non solo, ma se ad un certo punto, parlando del capitalismo, giustamente sottolinea come non tutte le donne abbiano l’ambizione di lasciare chissà quale segno del proprio passaggio sulla Terra (riferendosi alla dicotomia vita privata soddisfacente/carriera), la stessa indulgenza non è offerta alle femministe, come se chiunque si definisse femminista dovesse per forza essere pronta a chissà quali lotte. Non tutte sono nelle condizioni di scendere in piazza a protestare (credo fosse stata Gloria Steinem a dire che non tutte possono essere attiviste, intendendo che non tutte ne hanno il carattere, o la possibilità, ed è per questo che esistono le attiviste), non tutte possono permettersi di essere radicali al 100%. Questo le renderebbe meno femministe?

Infine, il capitolo sugli uomini è un altro capitolo che mi ha lasciata confusa. Parte con un’invettiva molto divertente su fatto che gli uomini non sono un nostro problema e che non è nostro compito rendere il femminismo più appetibile per loro. E’ giusto che il primo incontro con il femminismo sia d’impatto per loro, perché scontrarsi con certe realtà deve mettere a disagio perché ci possa essere una reazione. Gli uomini devono informarsi e studiare, esattamente come abbiamo fatto noi. Poi, però, dal non essere un nostro problema gli uomini diventano una nostra responsabilità e il femminismo dovrebbe includere più uomini (chi ha mai detto che gli uomini sono esclusi?) e concedere loro di lavorare sulla mascolinità e arrivare a conclusioni proprie, che potrebbero mettere in discussione le nostre (di nuovo, chi ha mai impedito agli uomini di fare tutto ciò?).

Il capitolo conclusivo (“E adesso?”) è quello però che mi ha delusa più di tutti. Non fa che reiterare quanto già detto in modo sporadico in capitoli precedenti e, tanto per cambiare, non offre nessun suggerimento. Capisco che l’intento dell’autrice sia quello di spingerci a informarci da sole, di invitarci a leggere le autrici che consiglia, ma al tempo stesso mi aspettavo un’opera più pregnante, che potesse aiutare chiunque volesse intraprendere quei primi passi verso un femminismo più radicale e verso quel cambiamento della società che tanto viene auspicato.

La mia prossima lettura femminista, un po’ per provocazione e un po’ per colmare una mia personale lacuna, sarà Feminism is for Everybody di bell hooks, che incidentalmente è fra le autrici consigliate dalla Crispin, nonché un’autrice che sicuramente saprà trattare l’intersezionalismo decisamente meglio di quanto non venga fatto qua.

Avete letto Perché Non Sono Femminista? Cosa ne pensate?

Traduttrice, femminista, lettrice.
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3 commenti su “Perché Non Sono Femminista di Jessa Crispin: un’occasione mancata.

  1. Ciao! Questo libro non mi convinceva già a partire dalle sue premesse, per il momento non credo di aver voglia di leggerlo. Avevo recuperato tempo fa un libro di Andi Zeisler che parla sempre di questo tipo di femminismo che lei definisce “marketplace feminism”, si chiama We Were Feminist Once; credo sia impostato meglio e soprattutto credo citi delle fonti XD bell hooks voglio recuperarla al più presto!

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