Certe città ti restano addosso, come il profumo di qualcosa che è stato a lungo sul fuoco e che necessitava di tanto tempo per raggiungere il giusto punto di cottura.
Trieste per me è un po’ così. Mi ricorda quei piatti che riuniscono le donne della famiglia sotto Natale, perché ci vogliono tante mani e tante parole perché vengano bene, lentezza e ritualità nell’eseguirli. Le ore sembrano non passare mai, poi all’improvviso ti accorgi che fra le chiacchiere e gli aneddoti il tempo è passato veloce e di punto in bianco il cibo è pronto, si mangia, le feste finiscono.
Trieste per me è questo, è una pietanza che è stata preparata con calma e che ha cotto per anni e che solo ora – guardandomi indietro con gli occhi nuovi della lontananza – riesco a gustare come si deve.
Trieste è i momenti sul Molo Audace passati a respirare il mare e a guardare l’orizzonte, è i tramonti sull’acqua e sul Carso, è le luci del porto, le voci in triestino e le commesse che ti dicono “volentieri”, lasciandoti lì ad aspettare qualcosa che non arriverà mai. È la facoltà più spaventosa del mondo, che al solo pensiero di rimetterci piede provo un misto di nostalgia e ansia. È andare a piedi ovunque, sfidando le salite e il vento. È leggere le opere di chi, più straniero di te, ha saputo descriverla così bene da fartela mancare ancora di più.
È il ricordo di persone che pensavi avresti sempre avuto al tuo fianco, ma poi c’è chi cambia facoltà, chi si laurea in un’altra sessione, e inaspettatamente anche l’università finisce, lasciandoti addosso un odore un po’ stantio, come se lo studio potesse farti progredire e al tempo stesso stare fermo, come un cappotto che ogni anno tiri fuori dall’armadio e per un attimo sembra nuovo, e invece è sempre lui.
Trieste è capire da sotto alle coperte se fuori c’è bora. È stupirsi di quanto ogni volta i triestini siano contenti di lasciarsi trasportare da refoli irregolari e imprevedibili.
È andare nei cinema del centro, che profumano di cinema di una volta e dove occasionalmente capita anche di vederceli, i film di una volta.
Trieste è entrare nei caffè storici e venire trasportati a inizio Novecento e immaginare gli irredentisti e gli scrittori intenti a riflettere sulle loro idee grandiose, mentre tu li osservi a distanza e ti chiedi se il tavolino in cui sei seduta non fosse magari il loro preferito. È anche dover imparare la nomenclatura del caffè a suon di ordini sbagliati.
Lasciare Trieste dopo cinque anni è stato come lasciare la casa dove sei cresciuto. Non so che odori mi abbia lasciato addosso. Spero quello del mare, e quello di certi androni di palazzi storici. Spero mi abbia lasciato l’odore dei negozi di antiquariato dietro a Piazza Unità, dove andavo alla ricerca di non so cosa e mi perdevo nell’osservare le tracce delle vite degli altri esposte su tavoli o dietro teche di vetro.
Spero mi abbia lasciato l’odore della spensieratezza giovanile, di quell’età magica in cui senti di avere ancora tutto davanti e tutte le possibilità del mondo. Ma spero di aver lasciato anch’io un segno del mio passaggio. Spero che chi occuperà la stanza dove ho vissuto per cinque anni senta i profumi e gli odori che a mia volta mi sono portata dietro io: il pane di Ferrara, gli odori dei miei viaggi, o anche solo il profumo del mio bagnoschiuma preferito, e spero di tornare, prima o poi, e di ritrovare gli stessi odori.
Di scendere dal treno perennemente in ritardo e dire “sono a casa”.
[Questo pezzo è uscito anche su Medium]
Un commento su “I miopi ci vedono meglio da lontano”