Una copia del libro "What she's having" è aperta sul tavolo, vicino a un piattino con una fetta di treacle cake e una tazza fumante di tisana. Sullo sfondo, una libreria

Pollo di mezzanotte

Dopo di te

sono spopolata,

una nuvola senza popolo delle nuvole

un’anima senza angoli,

spazzata da un vento impetuoso.

Un nòcciolo senza frutto.

Respiro forte

sotto cielo duro.

Sovraesposta

e schiusa,

mi aggiro appena nata

per la città fragorosa

e tocco muri con dita vegetali,

li conto,

come prove numeriche

di essere al mondo,

lo stesso mondo.

 

Chandra Livia Candiani

 

Adesso che non so più niente

che il vuoto è bella dimora

che ho passi senza arsura

che siedo e imparo

a esitare, adesso

che non sei più al centro

e quello che conta non è più

al centro

ma spostato

tra le mani

dove le dita si disarmano

e fanno un gesto limato,

adesso questa categorica bellezza

di rami e cieli

pugnala solo

perché entri luce.

 

Chandra Livia Candiani

 

[…]

In general, despite my textbook relationship history and a few

          other life successes I was fairly sure things were not going

          anywhere near as well for me as they were for other people

          I knew.

I tried to rationalise this by saying to myself I bet that’s what

          they’re thinking and who knows how they’re really feeling.

Sometimes a friend would refer to someone we knew who

          seemed happy and self-confident and successful in their

          career and married and appeared to have no troubles

          whatsoever, and it was very distressing.

If everything was really going so well for this person then how

          could we explain our deep inner sadness?

[…]

 

Trees, Emily Berry

 

Questo post è diviso in due parti. 

La prima parte necessita di avvertimenti – aborto spontaneo, sangue. 

La seconda parte parla di libri salvavita (un piccolo avvertimento anche qua, perché per quanto abbia cercato di separare le cose, è difficile farlo in modo netto, senza riferimenti).

Parte uno – quattro tradimenti

Quando è successo ho fatto fatica a guardarmi allo specchio per giorni. Odiavo il mio riflesso e non riuscivo a reggere il mio stesso sguardo. Il mio viso era diventato quello di una persona odiata, una persona che non si merita neanche di essere guardata in faccia quando entra in una stanza. Tutti mi dicevano che non era colpa mia, ma lo specchio sembrava sussurrarmi ogni volta “bugiarda”.

I primi giorni ho cercato di distrarmi come potevo. Una passeggiata sulla high street, constatando che solo io e le signore anziane ci preoccupiamo ancora di indossare la mascherina al chiuso. Una sessione di pianto silenzioso nel cimitero di una chiesetta incastrata fra due strade trafficate, con la sola compagnia di musica deprimente nelle orecchie e di una signora che, ignara di tutto, ha continuato a leggere un giornale stando seduta con le gambe stese sulla panchina di fronte alla mia, beata nel sole di novembre. Un rewatch della prima stagione di Glee, piangendo a ogni scena in cui Terry è dal ginecologo.

Le statistiche parlano chiaro: una gravidanza su quattro finisce con un aborto spontaneo. Le statistiche però dicono anche che una donna della mia età (32 anni), che non fuma, non beve, non ha problemi di salute e non ha familiari con determinate malattie non ha motivo di preoccuparsi. Eppure.

Eppure il mio aborto più che spontaneo è stato silenzioso. “Missed”, come me l’hanno descritto. L’allitterazione “missed miscarriage” me l’ha fatto sembrare ancora più crudele. Ho già sbagliato qualcosa in quel mis-carriage (la mia colpa racchiusa in quel “mis”-), aggiungiamoci anche che l’ho missed. Cioè che il mio corpo abbia deciso di continuare a riempirmi di ormoni, di farmi lavorare con la nausea, di farmi addormentare con la nausea e il mal di stomaco, di farmi esplodere il seno, di rendermi insopportabile qualsiasi odore e di farmi sentire spossata tutto il tempo. Di farmi credere per quasi quattro settimane che era tutto a posto, che quel primo novembre sarei tornata a casa con le foto da mandare ai miei genitori, come tuttз lз altrз. Questo è stato il primo tradimento del mio corpo.

Referto medico che attesta: sadly, we can confirm a missed miscarriage

Ho bruciata sulle retine l’immagine di un feto immobile, sospeso nel vuoto, troppo piccolo per le presunte 12 settimane, e senza battito cardiaco. Dopo quell’immagine, ricordo un enorme silenzio, ma in realtà la stanza era piena del mio pianto, un pianto di quelli rumorosi, singhiozzanti, smorzato solo forse un po’ dalla mascherina.

Poi, le parole dolci del medico che mi dice che non c’è niente che io abbia o non abbia fatto che avrebbe potuto cambiare qualcosa, la busta sigillata contenente una brochure chiamata “Your miscarriage”, il farmi spostare in un altro reparto dell’ospedale, lontano da quei pancioni e quei sorrisi. E così, sono uscita in lacrime per andare nella Early Pregnancy Unit, circondata da altre persone in silenzio. Abbiamo parlato con un’infermiera che aveva i fazzoletti pronti da porgermi al primo singhiozzo. Queste sono le tue opzioni, non devi scegliere oggi, puoi scegliere una cosa e in corso d’opera cambiare idea, non preoccuparti. Voglio le pastiglie. Dobbiamo aspettare che te le prescriva unǝ medicǝ. La medica è l’unica con il naso fuori dalla mascherina, e mi fa firmare dei documenti. Altra attesa per prendere la pastiglia di fronte all’infermiera. 

Torniamo a casa. Doccia, primo di una lunga serie di assorbenti. “Ad alcune donne comincia subito, ma se fra 48 ore non perdi abbastanza, inserisci questi ovuli, metti un tampone e prendi subito due di queste pastiglie di antidolorifico e 400 mg di ibuprofene”. L’antidolorifico ha scritto sopra che crea dipendenza e contiene oppiacei. Gli ovuli non sono davvero ovuli, nonostante l’etichetta con il mio nome appiccicato sulla scatola e l’ordine di inserirli “vaginally”, o come mi ha ripetuto mille volte l’infermiera “down below”, facendo un gesto con due dita che almeno in questo paese potrebbe sembrare anche un’offesa, ma che almeno ha fatto ridere me e il mio ragazzo in un momento in cui non c’era proprio un cazzo da ridere. Gli ovuli, dicevo, non sono davvero ovuli, ma quattro piccole pastiglie che normalmente vengono date per un’altra patologia, ma che hanno questo piccolo effetto collaterale di provocare forti contrazioni dell’utero. Il foglietto illustrativo infatti ne parla solo in quella sezione. Penso che come al solito dei problemi delle donne non frega niente a nessuno, siamo sempre un’appendice nella storia di qualcun altro.

Il mio ragazzo per tirarmi su mi dice che gli antidolorifici sono “roba buona” e in effetti è così. Quando cominciano i crampi fanno male come le peggiori mestruazioni, quindi non oso immaginare come sarebbero stati senza quel cocktail di farmaci. Al tempo stesso, però, è come se il mio cervello sia ovattato. Capisco cosa sta succedendo, ma mi sento come immersa in un batuffolo di cotone, un po’ come se il mio corpo non sia davvero attaccato a me. Per tutte e tre le ore in cui si deve tenere l’assorbente interno resto praticamente immobile, seduta sul letto, su strati di asciugamani sacrificabili. Ad un certo punto mi si addormentano le gambe, ma ho paura a muovermi.

È strano cercare di descrivere l’attesa per una cosa che deve succedere, ma che al tempo stesso sembra cristallizzata nel tempo. Una sorta di bambinǝ di Schrödinger, che è, anche se sai che non è più, ma che non sarà solo alla fine di tutto questo processo. 

Penso che nonostante la botta di codeina il mio cervello abbia finalmente unito i puntini nel momento in cui ho tolto il tampone. Li ho pure dovuti comprare apposta, gli assorbenti interni. Mi hanno sempre fatto schifo, sono scomodi e non li trovo per niente pratici. Ora ne ho un’intera scatola nascosta nel mobiletto del bagno. 

È proprio in quel momento che è arrivato il secondo tradimento del mio corpo. Pensavo di potermi sedere e basta, che sarebbe stato come avere un ciclo particolarmente pesante e probabilmente più cruento, invece mi sono sentita del tutto imponente mentre muscoli lisci ti hanno spinto fuori, e mentre ti sentivo precipitare ho provato a contrarli, ma era come cercare di bloccare il mare con la sola forza del pensiero. Non si può. E anche se non potevi stare lì, non volevo che te ne andassi, che fosse ufficialmente finita. 

E quando mi sono tirata su, con le mani tremanti, mi sono accorta di sentire la pancia più leggera. Terzo tradimento del mio corpo. Come può una cosa di appena due centimetri, che anche quando va tutto bene non puoi neanche sentire muoversi dentro di te, uscire e darti una sensazione di leggerezza, come se mi avessero tolto un masso dalla pancia? Perché?

Dopo tre settimane di assorbenti e di sangue, si deve fare un test di gravidanza per accertare che non ci siano più ormoni in giro. 

Il test annuncia: “1-2 weeks pregnant”. Quarto tradimento. Chiama l’ospedale, lascia un messaggio in segreteria, fatti richiamare. Di nuovo capisco perché gli inglesi venerino l’NHS. Parlo con una signora gentilissima, che mi rassicura anche se non sa che ormai non sono più preoccupata. “We just need to do a scan, but don’t panic!”. Ormai il panico ha lasciato spazio solo alla rassegnazione. Speravo di poter mettere la parola fine a questa storia, per provare a ricominciare, ma dopo tre settimane sei ancora metaforicamente qua, e io con te in questo limbo da cui a volte mi sembra non potrò mai uscire.

Parte due – la zattera

La storia di Ella Risbridger è diversa dalla mia, ma comincia in un modo simile. Come io ho passato giorni seduta a letto, senza essere in grado di fare nulla, all’inizio del libro incontriamo Ella mentre è stesa sul pavimento della cucina, voglia di vivere non pervenuta, dopo aver accarezzato l’idea di buttarsi sotto a un autobus in centro a Londra. Da quella prospettiva vede il pollo che aveva comprato qualche ora prima e dopo un po’ decide di alzarsi e di cucinarlo, anche se è già notte inoltrata. Il pollo di mezzanotte diventa quindi un pretesto per ritrovare la voglia di sentirsi viva. Come Ella, avevo bisogno di qualcosa che mi aiutasse a distrarmi e il suo libro, comprato tempo fa, dopo una delle prime visite che avevo fatto per precauzione – per vedere se fosse tutto a posto prima di poter cominciare a cercare di restare incinta – mi è apparso come un segno. Lo avevo comprato perché Leena ne aveva parlato in uno dei suoi video, ma non potevo sapere quanto mi avrebbe aiutata a cercare di dare un senso alle cose.

“Il pollo di mezzanotte” è una raccolta di storie, prima che un libro di ricette. Ti prende per mano mentre Ella ripercorre ricordi legati alla sua infanzia, ai giorni a Londra insieme al suo ragazzo, alle amicizie nate per caso. Le ricette sono facili, ma spesso sono anche molto coinvolgenti, in un certo senso. Ti chiedono di mettere le mani in pasta, di provare a intrecciare il pane per elaborare un lutto, di sporcare la cucina sapendo che ne vale la pena, che penserai dopo a mettere a posto. Il suo modo forse un po’ caotico di fare mi ha fatta sentire compresa, da cuoca pasticciona quale sono. 

Il mondo come lo conosce Ella finisce, ad un certo punto, e le sue ricette puntellano questi momenti tristi con altri allegri, mostrandoti però che se ne può uscire.

Ho provato a replicare alcune delle sue ricette, dandomi il tempo necessario per prestare attenzione, per dosare ogni ingrediente e soffermarmi sui singoli passaggi, piuttosto che cercare di fare in fretta come tendo a fare di solito. Non importa se ci fossero anche altre cose da fare, non potevo permettermi di lasciare che questi passaggi mi scivolassero di dosso come tutto il resto. Dovevo ritrovare la mia sanità mentale da qualche parte. L’ho cercata in cucina.

Non sono riuscita a far lievitare bene il pane challah (e sì, non ho mancato di dirmi da sola quanto un esito del genere fosse ovvio, perché il mio cervello non si dà limiti quando si tratta di prendermi a sberle). Questo è il pane che Ella consiglia di fare quando si deve elaborare un lutto che si fatica a comprendere, un pane che puoi spezzare con gli altri per non sentirti sola. Ma è anche un pane che se intrecciato a formare un cerchio, invece che come una grossa pagnotta, è simbolo di celebrazione. Non so quando gli farò cambiare forma, ma come tutte le ricette del libro, mi ha dato speranza, e farlo insieme al mio ragazzo, che ha saputo fare quelle trecce benissimo, mi ha aiutata molto. 

Ho anche comprato un libro per imparare a fare il pane con il lievito madre con soli dieci minuti di preparazione. Il cliché da primo lockdown è diventato un cliché da pseudo casalinga disperata. Non mi importa, studierò bene come farlo e ci proverò. Nel frattempo, il pane senza impasto di Cucina Botanica mi è venuto benissimo.Pane challah fatto da me

Poi mi sono data ai dolci, provando la treacle cake, una sorta di plumcake pieno di melassa, zucchero, burro e spezie. Ella lo descrive come il dolce perfetto per quando si vuole uno snack facile da trasportare, per un pomeriggio passato in compagnia di un buon libro, all’aperto, come da bambini. È molto buona a colazione, accompagnata dal caffellatte, ma in effetti dà il suo meglio per merenda, con una tazza di tè fumante e un libro: leggermente croccante fuori, rimane sofficissima al suo interno e il contrasto tra la melassa e le spezie le donano quel calore di cui avevo davvero bisogno in questi pomeriggi autunnali.

Una copia del libro "What she's having" è aperta sul tavolo, vicino a un piattino con una fetta di treacle cake e una tazza fumante di tisana. Sullo sfondo, una libreria

Ho scoperto l’acqua calda, aprendo il varco della scrittura gastronomica autobiografica,  lo so, ma tant’è. Dopo mesi di brodini e cracker e di bocconi mandati giù a fatica per colpa della nausea, ho FAME. Ho cominciato a mangiare tutto quello che mi faceva gola, dai cibi proibiti a quelli che “boh, non è chiaro, ci sono dei blog che dicono di evitare, evito”. Ma questa fase non è durata tanto. Dopo un po’, abbuffarsi di schifezze compere non funziona. Forse, in un certo senso, volevo prendermi cura di me. Quindi mi sono data alla cucina, per trovare gratificazione davanti a un pasto caldo, per provare a vedere se nonostante i tradimenti non potessi trovare un po’ di amore nei confronti di me stessa e del mio corpo.

Il comfort food si chiama così per un motivo. E per quanto, di nuovo, sia un cliché, il giorno prima dei famigerati ovuli, il giorno del pianto sulla panchina del cimitero, ho capito che dovevo correre ai ripari. Quella sospensione del tempo fra la pastiglia e quella che nella mia testa sarebbe stata la scena delle mestruazioni di My Mad Fat Diary mi stava uccidendo psicologicamente. Servivano gli emergency brownies di Nigella. Cioccolatosi e goduriosi, non ti lasciano pensare ad altro mentre li mangi, se non a quanto siano buoni. Tra l’altro, Nigella è la signora che vorrei essere io. Acculturata, elegante, sexy, ma anche il tipo di persona che parla del bisogno di prepararsi dei brownie nel mezzo della notte e di fare anche fatica a farli raffreddare prima di azzannarli. La puntata di At My Table dove si scofana con estremo piacere patatine fritte e i suddetti brownie è la mia definizione di felicità. E infatti, i suoi brownie sono stati una benedizione.

Ice Cream Cooking GIF by BBC - Find & Share on GIPHY

Forse il mondo che mi si è aperto di storie di donne e cucina è il mio pollo di mezzanotte, la mia zattera per arrivare in un porto sicuro, quello dove non perdo del tutto il senno e dove cerco di ricominciare da capo.

Vivo giorno per giorno, alcuni giorni avvicinandomi di più a chi ero prima rispetto ad altri. Sperimento un po’ in cucina e accumulo ricettari da cui prendere ispirazioni.

Continuo a leggere.

 

There’ll be happiness after you

But there was happiness because of you

Both of these things can be true

There is happiness

Past the blood and bruise

Past the curses and cries

Beyond the terror in the nightfall

Haunted by the look in my eyes

That would’ve loved you for a lifetime

Leave it all behind

And there is happiness

 

Happiness, Taylor Swift

 

I libri:

 

  • Il pollo di mezzanotte e altre ricette per cui vale la pena di vivere, Ella Risbridger, traduzione di Laura Tosi, Guido Tommasi editore

Non saprei cosa aggiungere, oltre a quanto detto sopra, se non che fra qualche mese uscirà un suo nuovo libro di ricette (che ho già preordinato, ovviamente) e che l’antologia di poesie che ha curato è già sul mio comodino.

Se state già pensando ai regali di Natale, questo è un ottimo regalo per chi sta attraversando un periodo buio.

 

  • In the Kitchen, essays on food and life. AAVV, Daunt Books

Avevo già adocchiato questo libro in tempi non sospetti, quando avevo letto Tiny Moons di Nina Mingya Powles, altro libro (di cui ho parlato qui) che rientra alla perfezione nella categoria donne e cibo. In The Kitchen è una raccolta di brevi saggi divisi in tre categorie: coming to the kitchen, reading and writing the kitchen e beyond the kitchen. Neanche a farlo apposta, c’è anche un saggio di Ella Risbridger. Dalla storia delle diverse cucine che hanno accompagnato la scrittrice Rachel Roddy, alla ricette che diventano dei propri riti, gli argomenti sono variegati e quasi tutti i contributi offrono anche ulteriori spunti di lettura.

 

  • The Gastronomical Me, M. F. K. Fisher, Daunt Books (di questa autrice sono tradotti altri due libri in italiano, entrambi per Neri Pozza)

M. F. K. Fisher è stata una delle prime scrittrici gastronomiche, un’apripista del genere. Nonostante fossi molto impaziente di leggere questo libro, è stato quello più difficile da terminare. Chiaramente, essendo stato pubblicato negli anni ‘40, ha uno stile diverso da quello a cui siamo abituati, ma non è stato tanto quello a spiazzarmi, quanto il fatto che il cibo è sì presente, ma non è prominente. The Gastronomical Me, infatti, è più un memoir che prende spunto dal cibo, rispetto a un libro che parla di cibo mescolandolo al memoir. È un libro che richiede un po’ più di attenzione e dove il confine tra la fame di cibo e quella di vita, amore e serenità non viene spiegato. La vita di Mary Frances Kennedy Fisher ci scorre davanti agli occhi, dai giorni di privazioni e cibo blando negli Stati Uniti con la nonna, alle esplosioni di gusto a Dijon con il primo marito, fino alle sperimentazioni nell’orto della casa in Svizzera con il secondo marito. Il tutto intervallato da viaggi in nave, settimane interminabili dove viaggiava da sola o in compagnia, ma sempre con un occhio di riguardo per il cibo e per i cambiamenti interiori che solo attraversare l’oceano potevano capitarle.

Se non ci sono ricette vere e proprie, c’è comunque una grande attenzione ai dettagli: un buon vino, determinati ingredienti che devono essere combinati in un certo modo, tutto rientra nella definizione di mangiare bene.

M. F. K. Fisher era una donna che non aveva paura di mangiare da sola e, già che c’era, pure di ordinare piatti che lei stessa definisce “non feminine”, fregandosene di cosa avrebbero potuto pensare gli altri. Mangiare bene è un diritto a cui non è mai venuta meno.

Un altro aspetto che mi è piaciuto molto di questo libro è il suo essere queer, anche se non c’è scritto nel retro di copertina. Fisher non nasconde di aver avuto una cotta per una compagna di classe, e conclude il libro con una storia riguardante una persona a cui Fisher non dà un’etichetta, ma che lei vede per quella che è, senza giudicarla.

 

  • What she’s having. Stories of women and food. AAVV, Dear Damsels

Rispetto a In the Kitchen, qui troviamo anche narrativa e poesia, oltre che alla non-fiction. Anche in questo caso il rischio di farsi trascinare in altri tunnel libreschi è altissimo, ma farmi trascinare senza dover pensare a dove sto andando è il mio scopo. Uno dei saggi che ho apprezzato di più è A crab for one di Kate Young. Trasferitasi a Londra dall’Australia durante i suoi vent’anni, Young parla del suo rapporto con l’atto stesso di cucinare, un atto non solamente legato alla gratificazione del proprio appetito, ma un atto d’amore nei confronti delle persone a cui vogliamo bene. Cucinare per gli altri è bello e soddisfacente, ma Young precisa quanto sia altrettanto importante soffermarsi a riflettere quando cuciniamo soltanto per noi, assaporando ogni morso, ogni consistenza. L’amore che mettiamo nel cucinare per gli altri, infatti, non deve farci dimenticare di prendere cura anche di noi stessз.

Un altro saggio, Honey Cake di Amy Feldman, riflette sul cibo consumato durante alcune feste ebraiche. Pur non facendo parte di una famiglia particolarmente praticante, il riunirsi per ripetere una serie di azioni sempre uguali (ritrovarsi con cinque tipi diversi di dolci, organizzare una caccia al tesoro di cioccolatini kosher per i bambini, e così via) rende il cibo molto più di un semplice nutrimento. Mi piace sempre molto sentire le storie degli altri quando si tratta di tradizioni gastronomiche, perché mi permette di sbirciare nel mondo di gente a me sconosciuta, ma che improvvisamente diventa come luminosa grazie ai piccoli sprazzi di vita che mi vengono offerti.

 

  • Home Cooking, Laurie Colwin, Penguin Fig Tree (dovrebbe uscire una nuova traduzione per Sur nel 2022)

Questo libro è stato quello più difficile da reperire e di conseguenza la voglia di leggerlo era diventata insopportabile. Non so se sia stata colpa di tutta questa anticipazione o di alcune uscite infelici della scrittrice, ma a parte un paio di ricette che penso proverò, non mi ha lasciato molto. La scrittura mi ha ricordato Nora Ephron, eppure certi commenti sui vegetariani e gli intolleranti al lattosio, imputati di essere dei seccatori da avere a cena, oltre a un “he or she” usato per parlare di una donna trans, mi hanno fatto apprezzare di meno il suo smalto. Certo, è stato scritto quando forse non c’era molta attenzione intorno a questi temi, ma è un peccato lo stesso. Se però metto da parte queste critiche, sicuramente Colwin è riuscita a portarmi nella New York degli anni ’80, in un mondo che pensavo che avrei potuto vedere anch’io e che invece è ormai storia.

 

  • Omelette, Jessie Ware, Hodder Studio

Confesso che nel momento in cui ho adocchiato questo libro non sapessi chi fosse Jessie Ware. Per chi fosse ignorante come me, è una cantante inglese che ha anche un podcast che cura con la madre, Table Manners.

In Omelette, seguiamo Jessie avanti e indietro nel tempo. Dalla sua infanzia e adolescenza nel sud di Londra agli anni dell’università, fino ai tour negli States. Storie di famiglia e ricette che non sembrano tali – come quelle per i suoi toast preferiti o per un trifle che non so con quale coraggio abbia portato a un matrimonio – sono racchiuse in macro aree tematiche, come uova, latte, alcool. Il problema è che ogni macro area è composta da piccoli spezzoni scollegati fra di loro, il cui fil rouge spesso sembra mancare. Non definirei questo libro un foodoir (food memoir), come fa Ware nell’introduzione, ma piuttosto una serie di vignette dove a volte compare anche del cibo. Come si potrà dedurre, non ho particolarmente amato questa lettura, non solo per la mancata capacità di parlare di cibo in modo coinvolgente, ma anche perché mi è risultato difficile farmi coinvolgere dai racconti di una persona famosa che va a eventi privati con i Beckham, viaggia in continuazione e in fin dei conti, non ha molto da dire. L’unica nota positiva per me è stata poter leggere della Londra vera, nello specifico del sud di Londra. Nonostante i londinesi amino dire che a sud del fiume non ci sia nulla, da South Londoner ho apprezzato molto che Ware ne parlasse. Certo, non potrò mai permettermi di comprare casa qua, ma i racconti della sua adolescenza fra Clapham e Brockley, su autobus a due piani e viaggi verso central London per andare nel predecessore dell’Hard Rock Café con le amiche mi hanno intenerita.

 

Se conoscete altri titoli che potrebbero rientrare in questa categoria di donne e cibo, fatemi sapere. E in generale, qualsiasi titolo (non religioso, ecco) che parli di quello che mi è successo è benvenuto. Per il momento, ho i seguenti titoli che mi aspettano (scovati principalmente su LitHub e su Instagram):

 

  • Free Woman, Lara Feigel
  • The Life of the Mind, Christine Smallwood
  • Milk Blood Heat: Stories, Dantiel W. Moniz
  • 25% – Una donna su quattro, Erica Isotta

 

Se siete arrivatз fin qua, grazie.

Traduttrice, femminista, lettrice.
Articolo creato 41

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