La cultura si mangia

«Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova con l’ignoranza»

Queste parole non sono state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco per Guanda. Questo pamphlet, suddiviso in 7 illuminanti capitoli (Pane e cultura; Numb3rs. Di cosa parliamo quando parliamo di cultura?; L’Italia è fuori; Lo spettro del Kulturstaat; Le città “visionarie”; Democrazia precaria; Il presente e il futuro) ci dà una panoramica del nostro paese, sottolineando errori e scelte discutibili risalenti non solo agli ultimi anni di politica, ma addirittura a decenni e decenni fa, quando lo stato di salute dell’Italia era decisamente buono.
 
Cosa è cambiato, dunque? Perché l’Italia, da paese creativo e specializzato è diventato un paese dove non si inventa più niente di nuovo e non si investe nel cambiamento? Qui non si parla solo di cultura in senso stretto (quindi di letteratura e arte), ma anche di sapere scientifico (leggi ricerca), sviluppo e istruzione. Già, istruzione.Quella cosa per cui non ha più senso spendere soldi. Non meravigliamoci allora se non siamo innovativi e restiamo indietro: senza formazione, senza quello che una volta poteva essere la licenza media, poi il diploma e ora la laurea, non si va avanti, non si dispone degli strumenti critici per creare, per rischiare in modo intelligente.
 
Gli autori ricordano che negli anni ’60 l’Italia, nel settore della bassa innovazione tecnologica, non aveva nulla da invidiare agli altri paesi europei. Come al solito però, ci si è adagiati sugli allori, allori in questo caso fragili perché basati su manodopera a basso costo e svalutazione della lira. Il problema però è che mentre il mondo è cambiato e punta tutto sulla tecnologia avanzata, l’Italia non solo non sta al passo, ma non ci prova nemmeno, anzi, pur disponendo tutti di cellulari all’ultima moda non c’è una azienda italiana che abbia pensato di buttarsi nella produzione di smartphone.
 
Per progredire in ambito industriale servono nuove conoscenze e le nuove conoscenze possono essere acquisite solo con un’adeguata formazione e un adeguato finanziamento alla ricerca. Perché nessun governo (Prodi, Berlusconi, Monti) ci è arrivato? Perché per trovare esempi di città visionarie dobbiamo tornare indietro di 50 anni a Trieste, dove un fisico teorico l’ha resa città della scienza, o andare in Puglia per vedere come puntare sulla cultura porti anche introiti? Non dovrebbe essere la norma, in un paese come il nostro, essere dotati di quello che gli autori definiscono visionning?
 
È ovvio che io, a 24 anni, non ho risposte. Tuttavia, sono rimasta colpita da questa analisi così pungente e incerto senso talmente ovvia da far scaturire spontanea la domanda “perché nessuno fa niente?”. Mi sono sentita toccata nel vivo quando ho letto dell’assenza di contratti per traduttori, sceneggiatori, collaboratori di riviste o case editrici. Dell’assenza di garanzie per chi lavora in questi ambiti. Come se lavorare in ambiti culturali fosse di serie B, neanche degno di un riconoscimento minimo come la pensione, i giorni di malattia, le ferie. È questo che devo aspettarmi una volta uscita dall’università?
 
È proprio vero che in Italia con la cultura non si mangia, ma è anche vero che piano piano anche chi di cultura non vive comincia a sentirne le conseguenze, perché la Cultura non è solo leggere l’ultimo libro del vostro scrittore preferito, poter vedere un film di nicchia o andare a teatro. La Cultura è anche quella che ci permette di non affossarci a livello industriale, di fare scoperte in ambito scientifico, di fare soldi, sì. Perché la cultura ha anche un valore economico, diciamolo. Organizzare festival dà lavoro a tantissime persone, anche a chi non si interessa del festival in sé. Tradurre libri italiani all’estero, produrre film italiani, esportare prodotti italiani che non siano solo rivolti a un mercato di nicchia come il lusso, porta soldi. Potrà suonare male l’accostamento tra cultura e soldi e di sicuro aumentare i fondi alla cultura e alla formazione non dà subito i suoi frutti, ma li darà nel tempo, quando l’Italia capirà che una cosa che non “serve” nell’immediato non sempre non servirà in futuro o non porterà a qualcosa di irrinunciabile (divertentissimo l’aneddoto sull’incontro di Faraday con il primo ministro inglese). Certo, con le belle parole non si ottiene nulla, serve la volontà politica di fare qualcosa, perciò spero, anche se probabilmente invano, che questo libriccino arrivi nelle mani giuste, nelle mani di chi può effettivamente fare qualcosa per far rialzare il paese.

 

 
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