yellow birds

Il domino degli istanti: Yellow Birds di Kevin Powers

 

La prima volta che ho sentito parlare di Yellow Birds è stato leggendo un’intervista del Guardian a Dave Eggers, il quale lo citava come il miglior romanzo sulla guerra e in particolare «il libro più triste che io abbia mai letto negli ultimi anni. Ma triste in un modo importante. Dobbiamo essere tristi, profondamente tristi, per quello che abbiamo fatto in Iraq».
Kevin Powers aveva 17 anni quando si è arruolato volontario nell’esercito, prima della guerra in Iraq. Originario di una piccola cittadina provinciale, figlio di una famiglia non ricca, voleva andare all’università, voleva, come Bartle, il protagonista del romanzo, «qualcosa di più di strade sterrate e piccoli sogni». Kevin Powers, come il suo personaggio, tornerà dopo un anno passato a combattere in Iraq. Il suo ritorno però, per quanto segnato dalla colpevolezza di essere vivo e dal trauma di aver preso parte a una cosa così grave, così triste, appunto, lo vedrà laurearsi, scrivere poesie, scrivere questo romanzo.
Gli uccelli gialli del titolo altro non sono che i protagonisti di una canzoncina che i militari americani cantano per scandire il passo nelle marce, canzone che rappresenta appieno la surreale situazione provata dai soldati in guerra (l’uccellino giallo viene attirato con un pezzo di pane e gli viene fracassata la testa): l’unica via di fuga è spersonalizzare l’atto che stai compiendo, non guardare la morte in faccia, ma con distacco e (apparente) indifferenza, con un “se muore un altro, ci sono meno probabilità che muoia io”.
La narrazione di Powers è potente, onesta, risuona della poesia di cui è scrittore. La luce, i colori, i rumori, il silenzio assordante, gli odori della guerra sono con noi mentre leggiamo. La guerra stessa è con i soldati, la guerra che, come hanno fatto notare in molti, è personalizzata alla T.S. Eliot, è una guerra che «provò a ucciderci in primavera», una guerra dagli occhi bianchi e spalancati, paziente. Perché se la scelta di andare in guerra è volontaria per Bartle e il suo compagno Murph, una volta arrivati in Iraq la volontà, i propri pensieri, la propria coscienza di sé diventano concetti labili. La memoria stessa è labile, inaffidabile. A cosa si appoggia un soldato in guerra? Se i soldati in questione poi sono due ragazzi di 21 e 18 cosa ci si può aspettare da loro? Da Bartle arriva una promessa (definita “insana” da Fabio Fazio) alla madre di Murph: «Le prometto che glielo riporto a casa». Questa è la sua fatale promessa, promessa che lo divorerà e che fin da subito viene demonizzata dal sergente Sterling, il quale sa che per sopravvivere devi lasciare fuori tutta l’umanità che hai e non devi giocare con il destino. Ci si interroga molto in questo romanzo su quale sia il ruolo del destino e della memoria, se vi siano soldati già destinati a morire ancor prima di aver messo piede sul campo. Bartle e Murph all’inizio, sempre per la logica della probabilità di cui sopra, contano le vittime, sperando che non sia uno di loro ad essere la millesima vittima, perché alla fine, se guardi ai tuoi compagni caduti come a numeri è più facile il distacco, è più facile credere di non avere paura. In realtà è chiaro che non si può controllare niente, nemmeno i propri pensieri e la propria memoria. E allora la memoria porta Bartle, una volta tornato a casa, a ripensare a tutto, a stringere nel sonno un fucile che non c’è, a chiedersi quando è cominciato il suo venir meno alla promessa che ha portato alla morte di Murph. Bartle ripercorre nella sua mente i momenti passati con Murph alla ricerca dell’esatto punto in cui Murph ha cominciato a morire ancor prima di essere ucciso. L’errore di Murph è stato quello di non riuscire a distaccarsi, di pensare al futuro, di essere lasciato dalla fidanzata mentre intorno a lui la gente moriva, di osservare ogni giorno una giovane dottoressa piangere lacrime silenziose dopo l’ennesima persona che non era riuscita a salvare. Murph si perde in una spirale che lo porta alla totale alienazione, ma paradossalmente è l’unico che riesce a esprimere a parole, in una scena dove i giornalisti arrivano per riprendere la guerra dal vivo e un colonnello tiene un discorso patriottico e insensato di fronte alle telecamere, cosa significhi stare lì in mezzo alle bombe. Descrive la sospensione del tempo, la dilatazione del tempo che intercorre tra l’essere vivi e l’essere morti, e l’ansia del non sapere quanto durerà quella dilatazione, se ci sarà, appunto, un futuro dopo la guerra.
Un futuro per Bartle c’è, ma è un futuro dove deve fare i conti con una promessa non mantenuta, con domande, con sensi di colpa. L’esperienza che ha vissuto è vivida e al tempo stesso nebulosa nella sua memoria, e proprio perché è questo che ti succede quando vai in guerra l’autore ha deciso di far sentire la propria voce attraverso un romanzo e non con un diario.
Aveva ragione Dave Eggers, Yellow Birds è triste, ma quel tipo di triste che ti fa riflettere, perché anche se la guerra in corso è combattuta da soldati volontari, non significa che la loro esperienza debba essere ignorata, perché come ha affermato lo stesso Powers in un’intervista, non è che torni a casa ed è tutto a posto.
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